L'intervista a MAURIZIO CASASCO

«È come una guerra, ma ce la faremo»

Il presidente delle piccole imprese: «Qualcuno s'era illuso che il morbo non sarebbe arrivato. Ora, se crolla la manifattura crolla il Paese. Stop a tasse e versamento dei contributi per le aziende che hanno subito danni»

di FEDERICO NOVELLA ¦ «Siamo come in guerra. Servono decisioni rapide, ma senza farsi prendere dal panico. L'obiettivo è tornare al lavoro quanto prima». Maurizio Casasco è il presidente di Confapi, l'associazione che riunisce 90.000 piccole e medie imprese italiane, per un totale di 900.000 addetti. Praticamente, il cuore pulsante dell'industria nazionale, quella che si prepara a subire il colpo più duro dall'epidemia.

Il governo ha varato un primo pacchetto di aiuti. Bollette e mutui sospesi, rifinanziamento del fondo di garanzia per le Pini.

«Piccole iniziative utili, ma non è certo sufficiente. Il prezzo che stiamo pagando è altissimo. Bene gli ammortizzatori sociali, ma poi bisogna riportare i lavoratori nelle fabbriche».

Gran parte di queste misure riguarda i Comuni della zona rossa. Presto arriveranno altre decisioni. Quanto è doloroso il colpo?

«E molto grave. L'ho detto e lo ripeto: se va in ginocchio la manifattura, siamo perduti. Il fondo di garanzia è fondamentale, ma non dobbiamo concentrarci solo sulle zone rosse. Il sostegno, la semplificazione della burocrazia e della fiscalità devono essere estesi anche alle zone limitrofe. Anche lì ci sono aziende che stanno soffocando. Non possiamo pensare che se Codogno è in quarantena, Piacenza, a 30 chilometri, non stia soffrendo. Se ad esempio l’automotive è fermo, lo sono anche i fornitori di poliestere, dei materiali tessili, tutti stanno subendo danni pesanti».

La crisi è dunque estesa a tutta Italia?

«Forse qualcuno si era illuso che il virus dalla Cina non sbarcasse in Italia? Adesso è altrettanto illusorio immaginare che dalla Lombardia non si estenda alle Regioni del Sud. Dunque si blocchino subito i tributi fiscali e contributivi per tutte le piccole e medie imprese che dimostrano di aver subito un danno, e sono tante».

Parliamo della gestione dell'emergenza. Anche lei sente il bisogno di una linea di decisione più chiara e meno confusionaria?

«Purtroppo sarebbe servita una catena di comando corta, veloce ed efficiente. Il nostro sistema è fatto di tanti centri di potere: Regioni, sindaci, ministeri. Che sia la presidenza del Consiglio, o la Protezione civile, mi auguro che qualcuno prenda chiaramente il comando, con un vero coordinamento sugli interventi da prendere».

Come avviene all'estero in una situazione di minaccia per la sicurezza nazionale: auspica una catena di comando quasi militare?

«Indubbiamente. Forse questa esperienza può servire da lezione per pensare a una legge sulle emergenze. Gli antichi romani nei momenti di difficoltà sapevano che per 6 mesi dovevano riunirsi intorno a un potere forte».

Insomma, dobbiamo dare un'immagine di unità che ancora non c'è?

«Oggi mi aspetto che il governo, le forze politiche, maggioranza e opposizione, trovino questo spirito, saltando i particolarismi. È già successo: penso alla ricostruzione del ponte di Genova, o all'Expo di Milano».

Serve unità anche tra gli industriali?

«Noi, con responsabilità, l'abbiamo raggiunta. Anche quella certa competizione con Confindustria, per esempio, è stata superata. E devo darne atto a Vincenzo Boccia per gli industriali, Carlo Sangalli per i commercianti, Ettore Prandini per gli agricoltori: hanno messo al primo posto l'interesse del Paese. Oggi Confapi è pronta a fare la sua parte collaborando con il governo: servono decisioni forti, ma con una comunicazione corretta, altrimenti paralizziamo l'Italia».

Sono stati lanciati messaggi troppo allarmistici?

«Scontiamo una cattiva comunicazione, da parte del governo centrale e anche di singoli governatori. Da Roma si dice una cosa, dalle Regioni un'altra, dai Comuni un'altra ancora. Tutto ciò si ripercuote sulla nostra immagine all'estero: è questo che mi preoccupa».

Cioè?

«Gli Stati Uniti stanno sconsigliando alle aziende di andare in Cina, Corea del Sud e Italia. I nostri atleti nazionali non possono mettere piede in Ungheria, o a Cipro. Rischiamo di passare per incapaci, e non è un'immagine consona al nostro Paese. Se l'Italia agli occhi altrui diventa un Paese infetto, è un problema serio».

C’è chi è pronto a speculare sulle nostre debolezze?

«I francesi, gli americani e i tedeschi non vedono l'ora di approfittarne, occupando i nostri spazi sul mercato, attaccando il made in Italy. Hanno un'autostrada davanti, se non facciamo subito qualcosa».

Da dove ripartiamo?

«Così come in un'economia bellica si va dalle aziende produttrici di acciaio e gli si ordina di fabbricare pistole, allo stesso modo dobbiamo andare dalle imprese che producono materiale sanitario, per farle lavorare anche di notte».

Disinfettanti, mascherine?

«Tutto quello che occorre. Incentiviamole, diamogli dei contributi, devono fare gli straordinari e distribuire i loro prodotti nelle aziende a prezzo calmierato. Sono stato tra i primi a denunciare il caro disinfettanti, e per fortuna il governo ha dato una stretta...».

Produrre materiale sanitario 24 ore al giorno comporterà degli investimenti pubblici importanti.

«Siamo in emergenza. E in questi frangenti, il sistema sanitario dev'essere guidato come in guerra».

In una guerra si attacca ma ci si deve anche difendere.

«Quello è fondamentale. Questo virus ha due caratteristiche: una mortalità bassa e un'alta contagiosità. La difesa consiste nel contenere la trasmissione attraverso una grande opera di prevenzione nelle fabbriche. Rendiamole il luogo più sicuro d'Italia attraverso informazione, disinfezione e vigilanza».

Come?

«Le aziende vanno anzitutto riaperte. Torniamo a produrre, per il bene di tutti. Nel contempo però bisogna introdurre indicazioni igieniche semplici e rigorose».

Vale a dire?

«Le buone prassi, gli indirizzi di comportamento quotidiano, i materiali igienici, i dispenser, la pulizia delle scrivanie e delle mense. Decidiamo insieme che quando un dipendente presenta dei sintomi, deve stare a casa o farsi curare finché l'influenza non passa. Regole uguali in tutta Italia».

Ha scritto a Cgil, Cisl e Uil per fare fronte comune.

«Indispensabile. La vigilanza su queste regole deve essere affidata congiuntamente alle parti sindacali e ai datori di lavoro. E andiamo avanti così, fianco a fianco, per salvare l’economia fino all’arrivo del vaccino».

Dobbiamo fidarci di più degli esperti?

«Non possiamo basarci solo sulle scelte politiche. Ora più che mai, dobbiamo lasciarci guidare dalle nostre eccellenze mediche. Non parlo solo degli scienziati, ma anche dei medici del lavoro all'interno delle aziende, i medici sportivi, i medici di base, gli infermieri. Stanno facendo un'opera davvero straordinaria sul territorio. E devono essere messi in campo e coinvolti, valorizzando le loro competenze».

In qualità di presidente della federazione medici sportivi, ha consigliato a tutti di vaccinarsi contro l'influenza. Perché?

«Perché così riduciamo i casi febbrili, scremiamo la platea, rendiamo più semplice la diagnosi e la gestione dei casi sospetti. Ci facilitiamo il compito».

Palazzo Chigi sta preparando una linea di trattativa con l'Unione europea. Cosa si aspetta?

«Che le spese per affrontare il virus non siano conteggiate nel patto di stabilità. Non solo, ci aspettiamo anche che l'Europa ci dia attivamente una mano. Le grandi imprese sono in grado di resistere, le piccole invece hanno alti costi e bassa marginalità. Le nostre esportazioni sono a rischio, e non possiamo fare finta di nulla».

Chiede contributi a Bruxelles?

«Assolutamente. Del resto, i fondi li abbiamo dati persino alla Turchia, sulle questioni migratorie. Li abbiamo dati, con soldi nostri, all'Est Europa: e adesso l'Ungheria ci fa concorrenza tenendo basso il costo del lavoro. La Romania ha addirittura bloccato le importazioni di merci dal Veneto».

A Roma le prenotazioni turistiche si sono quasi azzerate. Il governo sospende il pagamento dei contributi per il settore. Basterà?

«Il turismo è il settore che paga il prezzo più alto nell'immediato, ed è giusto sostenerlo. Ma teniamo a mente una cosa: il panico passerà, la gente tornerà a fare vacanze, il sole, il mare, il nostro paesaggio non ce lo toglierà nessuno. Se invece lasci morire le fabbriche e la manifattura, hai fatto terra bruciata. È il nostro tessuto connettivo: se va in necrosi, rischiamo di non rialzarci più».

Da medico, secondo lei quanto durerà?

«Come ogni influenza, durerà qualche mese. Più che sufficiente per abbattere l'economia, se restiamo a occhi chiusi. Ma sono sicuro che ce la faremo: l'Italia ha la capacità di reagire».