Il ritorno dell’inflazione

Un automobilista. Un produttore di divani. Un allevatore di polli. Un distributore di oggetti cinesi. Che cos'hanno in comune queste persone così diverse?

Lo stesso problema: sono tutte investite dall'aumento dei prezzi delle materie prime. Chi guida un'automobile o un camion già inizia a sentire l'effetto del rialzo del petrolio, che in un anno è salito di oltre il 25 per cento. «La ripresa delle quotazioni internazionali del greggio» spiega Davide Tabarelli, presidente del centro di ricerche Nomisma energia, «ha spinto su i prezzi alla pompa dei carburanti in Italia, con la benzina che è tornata a 1,53 euro al litro, soglia non toccata dal marzo di un anno fa quando era appena iniziato il collasso del mercato per pandemia. Il gasolio, allo stesso modo, ritorna a 1.40 euro al litro. Da inizio anno i due prezzi hanno guadagnato oltre 10 centesimi e questo sarà uno dei primi elementi che spingerà un po' sull'inflazione». Un aumento di 10 centesimi delle ultime settimane rappresentano per il consumatore medio, che compra circa mille litri all'anno, una maggiore spesa annua di 100 euro. Ma il rincaro della benzina è niente rispetto agli sconquassi che il boom delle materie prime sta provocando in alcuni settori dell'economia. Nell'allevamento, per esempio, l'associazione di categoria Unaitalia ha denunciato che «il costante incremento dei prezzi di mais, grano tenero, crusca, farina di soia, potrebbe avere gravi conseguenze per l'avicoltura, una delle poche filiere agroalimentari nazionali in grado pienamente di soddisfare il consumo interno». Un allarme condiviso dal gruppo Amadori, che sottolinea come «dopo un ciclo di cinque anni caratterizzato da prezzi internazionali bassi, dallo scorso mese di agosto si è registrato un imponente rialzo del 35 per cento delle materie prime, con ì prezzi internazionali che sono tornati velocemente sui massimi del 2014». Ancora peggio stanno le aziende della plastica che si trovano a dover fronteggiare non solo la crescita dei prezzi dei polimeri nell'ordine del 30-40 per cento, ma anche la carenza di materiali per poter continuare a lavorare. Problemi che toccano perfino i produttori di mobili. La Confapi Matera ha segnalato alla Confederazione nazionale e alle categorie Unionchimica e Unital la situazione di «estrema gravità» in cui versa il comparto del mobile imbottito: sul mercato mancano i polimeri necessari a produrre il poliuretano espanso, cioè l'imbottitura per i divani. Inoltre, a quella dei polimeri di recente si è aggiunta la mancanza del legno. E quest'ultima può colpire indirettamente l'industria farmaceutica e la distribuzione di alimenti. Sono le aziende produttrici di pallets a segnalare infatti che il pesante aumento dei costi del legno metterebbe a rischio l'approvvigionamento dei prodotti alimentari e medicali: «È dal luglio 2020 che siamo di fronte a un progressivo e costante aumento del prezzo della materia prima necessaria alla fabbricazione di pallets» avvertono le associazioni di categoria «con le ovvie ricadute negative sul settore, già in difficoltà per la crisi dovuta al Covid-19. I dati del Centro ricerche imballaggi in legno evidenziano infatti che l'impennata dei prezzi dell'ultimo trimestre 2020 risulta superiore al 20 per cento e la crescita non si è fermata nei primi due mesi del 2021 ». Siamo ancora in piena pandemia e il mondo delle materie prime sembra im[1]pazzito. L'indice Bloomberg Commodity Spot, che traccia i movimenti dei prezzi di 23 materie prime, in un anno si è impennato del 38 per cento. Il rame è volato ai massimi degli ultimi 10 anni, il cotone è salito del 13 per cento, l'acciaio è rincarato di oltre 300 euro a tonnellata negli ultimi sei mesi del 2020 trascinando verso l'alto le quotazioni del carbone. Perfino i microchip sono introvabili: l'Anfia, l'associazione che raggruppa le aziende italiane dell'automotive ha lanciato l'allarme sulle difficoltà di approvvigionamento dei microprocessori e sul loro forte rincaro, che si somma a quello di acciaio e materie plastiche. In giro per il mondo alcune case automobilistiche hanno dovuto fermare le linee di montaggio per la mancanza dei chip. Le cause di questo boom sono riconducibili sostanzialmente a due fenomeni: la ripresa dell'economia asiatica e in particolare cinese, probabilmente più rapida di quanto ci si potesse aspettare, e il rallentamento della produzione nei Paesi colpiti dalla pandemia. Quindi, forte domanda e offerta scarsa. Prendiamo il caso del legno: da una parte c'è la richiesta dal Nord America e dalla Cina, dove la domanda è addirittura aumentata, dall'altra la diminuzione dell'offerta poiché alcuni Paesi come Svezia, Germania, Irlanda, Stati Uniti e Canada hanno dovuto ridurre la produzione. Nel caso del mais e della soia (dove però si sta manifestando anche una scarsità strutturale) le forti importazioni cinesi hanno di fatto ridotto notevolmente le scorte dei principali Paesi produttori, con il Brasile che ha quasi azzerato gli stock. E nel caso dell'acciaio i maggiori produttori europei hanno riavviato la produzione molto lentamente e in ritardo, creando un vuoto nell'offerta. A tali fenomeni ne va aggiunto poi un altro: la difficoltà a trovare container. Ce ne sono pochi a causa della ripresa del commercio oltre le aspettative in Cina, e per la contestuale cancellazione da parte degli operatori logistici degli ordini di nuove unità nel periodo dei lockdown. Paolo Micolucci, consigliere delegato di Brico-io (catena dì negozi per il fai-da-te) ha dichiarato a una testata di settore che i noli hanno raggiunto, nel giro di circa 6 mesi, dei costi spropositati: «Parliamo di 11-12 mila dollari a container, contro i 1.500 circa del periodo precedente. Ci si può trovare nella situazione di spendere per il trasporto una cifra superiore a quella del costo del materiale trasportato». E se si ottengono i container, non è detto che si riescano a imbarcare: ci sono molti fornitori con centinaia di container fermi sulle banchine cinesi perché non riescono a scovare le navi che li trasportino dai clienti europei. Naturalmente molti di questi squilibri verranno riassorbiti nei prossimi mesi e anche i prezzi delle commodities torneranno a livelli più ragionevoli. Ma certo non più alle quotazioni del 2020. Guardiamo il petrolio: lo scorso anno il Brent era sceso a 41,8 dollari al barile, in netto ribasso rispetto ai 64,1 dollari del 2019. Bene. Quest'anno, prevede Nomisma energia, il greggio si attesterà sui 68,1 dollari per salire progressivamente fino a 79,8 dollari nel 2023. C'è addirittura chi rivede il petrolio a veleggiare verso i 100 dollari al barile. Forse stiamo entrando in una fase in cui la ripresa dell'economia manterrà alti i prezzi delle materie prime. E questo avrà un impatto sull'inflazione, la bestia nera delle Borse mondiali. Le attese di rialzo dell'inflazione, infatti, spingono verso l'alto i tassi di interesse. Di conseguenza gli investitori iniziano a guardare alle obbligazioni con maggior interesse e si liberano delle azioni più speculative. A fine febbraio il tasso del Treasury bond americano decennale ha toccato il livello massimo da un anno, l'1,6 per cento, e questo rialzo ha provocato uno smottamento dei titoli azionari tecnologici. Ma davvero l'inflazione sta tornando? O stiamo assistendo a una sana «reflazione», cioè al passaggio da un'inflazione troppo bassa a una normale? Alessandro Fugnoli, analista della società di investimenti Kairos e autore della newsletter Il Rosso e il Nero ha scritto di recente che è presto per parlare di inflazione con la «i» maiuscola: «Lo stesso rialzo delle materie prime non va enfatizzato più del dovuto. È infatti perfettamente fisiologico che, nella prima metà di un ciclo espansivo, le materie prime accompagnino l'economia e le Borse verso l'alto, salvo prodursi in un decoupling (disaccoppiamento, ndr) e iniziare a scendere verso metà ciclo, mentre le Borse continuano a salire». Anche Fabrizio Quiringhetti, gestore di Decalia, non vede pericoli di ritorni di una forte inflazione: «E vero che nei prossimi mesi ci saranno gli ingredienti per alimentare la paura dell'inflazione: la crescita reale dell'economia americana sarà superiore al 7 per cento e quando un'economia corre veloce i prezzi tendono a salire; e in aprile l'inflazione sembrerà accelerare perché si confronterà con livelli di prezzi sottozero di un anno prima. Ma questi effetti contemporanei spariranno dopo l'estate, insieme alla paura». Quiringhetti ricorda poi che la vera inflazione c'è quando tutti i prezzi salgono, non solo quelli delle materie prime. E che negli Usa (e tantomeno in Europa) il mercato del lavoro non ha raggiunto la piena occupazione e quindi non ci sarà un aumento dei salari. E che perfino in Cina, dove la ripresa è bella sostenuta, l'inflazione non si è impennata. Per un po', dunque, il ritorno del carovita resterà nei nostri incubi.