Intervista a Maurizio Casasco

«La burocrazia non intralci: i dipendenti li vacciniamo noi»

Federico Novella

«Le medie e piccole industrie italiane hanno la forza per ripartire: ma per riaprire al più presto in sicurezza occorre velocità. Sia sui vaccini che sui ristori». Oltre a guidare Confapi, la Confederazione della piccola e media industria privata che riunisce 83.000 imprese, Maurizio Casasco è anche un medico. È stato il primo, a gennaio, a proporre la vaccinazione dei dipendenti in azienda, proposta poi abbracciata anche da Confindustria: in questi giorni è stata raccolta la disponibilità di 7.000 imprese. Il primo protocollo di attuazione è stato siglato in Lombardia tra amministrazione regionale e mondo produttivo.

 

Si può fare in tempi rapidi?

Si può fare se la burocrazia non mette i bastoni tra le ruote. Da medico so cosa vuol dire vaccinare: è un mare di pratiche, di regole da rispettare che vanno al di là della sicurezza. Per vaccinare in azienda non serve una clinica: basta il medico competente, i farmaci per eventuali reazioni avverse, e il rispetto delle norme igieniche».

 

Dobbiamo guardare all'estero?

«In Israele un medico vaccina 900 persone al giorno, noi siamo fermi a 100. In Inghilterra procedono con la stessa speditezza. E poi ogni posto è buono per vaccinare. Piuttosto mettiamo 20 persone in ogni fila di seduta in un cinema, pur distanziate, con il solo braccio scoperto e le facciamo vaccinare in sequenza da infermieri con la presenza di un medico. E non facciamo che il braccio scoperto sia un problema per la privacy. Credo infatti sia importante che l'Authority riveda alcune posizioni».

 

E perché mai?

«Un anno fa il garante sostenne che i datori di lavoro non potevano  misurare la temperatura ai dipendenti. Oggi addirittura una sua circolare afferma che il datore di lavoro non può comunicare se il dipendente è vaccinato, neanche con il suo consenso. Se queste sono le regole, accelerare la campagna vaccinale sarà impossibile. Io invece vorrei vedere un Paese che può procedere senza troppi vincoli in un momento di pandemia, come avviene per l’antitetanica o l’antinfluenzale».

 

Vaccinare in azienda non tutela solo la salute, ma anche l'economia?

«Ovvio. Se si riesce a creare una bolla sanitaria aziendale, si potrà coniugare la salute dei lavoratori, il mantenimento del posto di lavoro con le attività produttive. Le imprese italiane potranno avere un passaporto Covid free da utilizzare sul mercato nazionale e internazionale».

 

Cioè?

«Se un'azienda tedesca, ad esempio, chiede un ordine, e viene garantito che il 90% di quei dipendenti sono vaccinati, si possono assicurare le consegne a date e costi certi. Così magari quell'azienda mantiene il rapporto commerciale senza pensare ad altri Paesi extra Ue. E’ un vantaggio competitivo, e oltre alla salute proteggiamo anche i posti di lavoro e il Pil».

 

Confindustria ha accennato alla possibilità di vaccinare in azienda anche i parenti dei dipendenti.

«E un'idea un po' confusionaria. Temo si creerebbero discriminazioni rispetto al resto della popolazione. Se poi qualche grande azienda volesse mettere a disposizione del sistema sanitario i suoi capannoni per vaccinare tutti, nulla lo vieta. Sarebbe una risposta sociale all'emergenza. Ma non c'entra niente con le vaccinazioni aziendali, anzi, sono due piani che devono restare separati».

 

Come si sta muovendo il governo sulla campagna vaccinale? L'obiettivo fissato delle 500.000 vaccinazioni al giorno ad aprile le pare raggiungibile?

«Sono felice che il commissario straordinario Figliuolo, e il suo braccio destro generale Battistini, stiano straordinariamente andando nella direzione giusta, quella della semplificazione. Siamo al fronte, e la sfida va vissuta come in guerra. Anzi, sarebbe ora di accelerare per un vaccino prodotto in Italia. E’ una questione geopolitica, qui ci giochiamo l'indipendenza per il futuro».

 

Il caso della somministrazione di Astrazeneca, bloccato e riattivato, lascerà strascichi?

«La fiducia, già vacillante, si è incrinata. Il nostro grave errore è stato quello di ammettere quel vaccino solo sotto una certa età. Poi lo abbiamo direttamente bloccato. E poi c'è stato un buio comunicativo di tre giorni. Così facendo, nell'immaginario della gente abbiamo creato vaccini di serie A e di serie B. Invece il vaccino salva la vita: le persone vanno tranquillizzate, serve qualcuno che sappia spiegare le cose con chiarezza. Altrimenti l'ansia decolla».

 

Cosa andrebbe spiegato meglio?

«Che più vaccini significano meno contagi. Meno contagi significano meno varianti. Abbiamo un mese e mezzo di tempo prima che arrivi la variante della variante. E non possiamo continuare a rincorrere il problema tutta la vita».

 

E chi dovrebbe fare chiarezza?

«Apprezzo quanto sta facendo il presidente Draghi: qualche problema lo vedo al ministero della Salute dove da un anno si zoppica. C'è qualche criticità, insomma. Le cose potrebbero e dovrebbero funzionare meglio vista l'emergenza in cui ci troviamo».

 

Per dire, il presidente del Cts Franco Locatelli ha dichiarato che chi rifiuterà Astrazeneca verrà riconsiderato nel tempo per altri vaccini. Rischiamo una pioggia di disdette?

«E’ una scelta che spetta al governo. Credo che il problema sia risolvibile attraverso una comunicazione scientifica che trasmetta fiducia».

 

Il governo ha approvato il decreto Sostegni, con 11 miliardi a fondo perduto per imprese e professionisti: in media 3.700 per le partite Iva. Si aspettava di più?

«Apprezzo il lavoro che stanno facendo il ministro Giorgetti al Mise, e anche il ministro Orlando al Lavoro. Potrei dirle che quei soldi non bastano. Già il presidente Draghi ha spiegato che sono stati erogati quelli che il bilancio consentiva e che verranno fatti ulteriori passi. Ma il problema non si ferma qua».

 

Cioè?

«Non è più questione di numeri, ma di velocità. Spero che quei soldi arrivino subito a destinazione, senza intermediari, e senza commettere gli errori del passato. Da oggi pretendo un rapporto diretto tra Stato e aziende».

 

Le piccole industrie stanno reggendo il colpo?

<<Ce la stiamo facendo con le nostre forze, e facciamo girare i macchinari anche in zona rossa, soprattutto al Nord. A soffrire sono soprattutto il turismo e la ristorazione, in particolare al Sud. Sono loro che hanno diritto ai ristori immediati. Leggo che i sostegni saranno parametrati al fatturato, ma spero vengano calcolati anche i costi fissi, che nelle piccole imprese incidono molto di più rispetto alle grandi>>.

 

Sullo stralcio delle cartelle, il premier ha parlato apertamente di «condono, necessario perché lo Stato non ha funzionato». Tuttavia, c'è un tetto di 5.000 euro e dei limiti di reddito. Serviva di più?

«Serve una pace fiscale vera, per ristabilire quel clima di fiducia che è alla base della ripartenza. Ci sono tante aziende in difficoltà. E aggiungo che la pace fiscale non dovrebbe scendere a pioggia: sarebbe il caso di premiare di più gli imprenditori che mantengono l'occupazione e che scelgono di non delocalizzare o di non avere sedi legali in Paesi con vantaggi fiscali. Non tutti vanno trattati allo stesso modo».

 

Sul fisco cosa si aspetta?

«Che si rimetta ordine in quella giungla. Solo per trasmettere informazioni fiscali alla pubblica amministrazione abbiamo di fronte un lavoro enorme e sempre a carico dell'impresa anche quando i dati sono già in possesso della Pa. E alcune tasse, come l'Imu, andrebbero rese più ragionevoli».

 

Ragionevoli?

«L'Imu è calcolata solo sui metri quadri. Ci sono aziende di finanza che fanno enormi fatturati su poche metrature, e piccole imprese tessili che per fare lo stesso fatturato hanno bisogno di spazi enormi. Per una questione di equità, la tassa andrebbe parametrata anche sul numero dei dipendenti e sui ricavi».

 

Serve un intervento anche sull'Ires?

«Mi aspetto che venga data una mano a chi reinveste gli utili o li rimette nel capitale umano tornando ad assumere. E’ fondamentale investire nel capitale umano. Ho fiducia nel governo quando afferma che una riforma di sistema sia inevitabile, spero che  riesca a mettere ordine».

 

Pensa che le piccole industrie siano discriminate rispetto alle grandi?

«Pensiamo ai ritardi dei pagamenti tra privati, una vergogna nazionale. I pagamenti delle grandi imprese alle piccole avvengono mediamente in 150-180 giorni, anziché 30- 60 come da legge europea. Siamo gli unici in Europa ad avere questi numeri.  E’ anche una questione di morale nazionale...»

 

Cioè?

«Se la Fiat, con sede in Olanda, va a comprare batterie elettriche in Romagna, paga a 120 giorni; i cinesi, per dire, pagano a 30 giorni. Perché dobbiamo favorire gli investimenti cinesi, quando basterebbe avere regole più eque?».

 

Bankitalia dice che 30.000 aziende sono in crisi di liquidità…

«Appunto: se i tempi di pagamento venissero rispettati le piccole e medie industrie avrebbero il 50% in più di liquidi. Sono anni che chiedo una tutela normativa più solida per i piccoli, come avviene ad esempio in Francia. Non abbiamo sedi all'estero e paghiamo il 6o% in tasse, ma spesso restiamo i più indifesi rispetto a grandi industrie che con gli incentivi pagano anche meno del 20%».