di Paolo Griseri

Sembra di giocare a mosca cieca: nel fortino blindato di una casa di riposo chiusa al pubblico da settimane, quali ospiti sono i sani e quali gli infetti? «Senza tamponi non possiamo saperlo. Ci basiamo solo sui sintomi e rischiamo spesso di non poter distinguere». Michele Oliverio alza le braccia di fronte alla domanda cruciale. Dirige una delle più grandi rsa di Torino, la "Principessa Felicita di Savoia", con 250 ospiti e 150 tra infermieri, medici e personale non sanitario. A Torino è responsabile del settore delle case di cura per l'Api. Oliverio non si nasconde: «L'epidemia ha colto impreparate molte strutture. Non difendo certo chi ha cercato di nascondere i decessi».

Signor Oliverio, le rsa sono sotto accusa. I casi di cronaca, da alcune rsa di Torino al Trivulzio di Milano, parlano di decine di morti. Lei come lo spiega?

«Questo attacco alle rsa in generale, facendo di ogni erba un fascio, non lo trovo corretto. Ci sono stati dei casi, parlo dell'area torinese, in cui il panico ha fatto commettere gravi omissioni. Non sono io a difendere chi ha cercato di nascondere ai familiari i decessi». Ma perché questo è accaduto? «In alcuni casi si è pensato, cosi facendo, di non spaventare i familiari degli altri degenti. In altri si è trattato di una catena di eventi dettati dall'ansia, dalla difficoltà di far fronte a una situazione inedita».

Perché si arriva impreparati ad una situazione come questa?

«Dobbiamo distinguere. Molte strutture, spesso quelle più piccole, sono residenze per anziani (Ra) che ospitano persone autosufficienti che vivono in una situazione non dissimile da una sistemazione di tipo alberghiero. In queste strutture gli ospiti si spostano, entrano in contatto tra loro. E' molto difficile tenerli chiusi in una stanza, ancor di più impedire loro di incontrare i parenti. Diversa è la situazione delle Rsa, che ospitano persone malate e non autosufficienti. In quelle c'è una maggiore consuetudine ad occuparsi delle patologie. C'è il personale medico e infermieristico che controlla. Insomma, in genere, le rsa dovrebbero essere più attrezzate a far fronte ad un'epidemia».

E' stato complicato chiudere le strutture?

«Noi lo avevamo deciso prima. Ma quando è arrivato il decreto che impediva ai parenti l'accesso nelle case di riposo il primo problema da risolvere è stato quello della rivolta dei familiari. Molti non capivano che andando a trovare gli anziani rischiavano di fare il loro male».

Come l'avete risolta?

«Con la persuasione, un po' di Ipad e un po' di bastoni da selfie. Per evitare di dovere disinfettare gli iPad ad ogni chiamata tra l'ospite e i familiari».

Come si vive sigillati dentro?

«Abbiamo dovuto bloccare tutte le attività interne che prevedevano l'ascensore per spostarsi da un piano all'altro. Chi non è autosufficiente non può fare le scale. Entrano ed escono ogni giorno solo infermieri, medici, personale. Spero che non si debba arrivare a ipotizzare di farli vivere anche loro all'interno. Ma è un fatto che sono persone che per arrivare qui prendono i mezzi pubblici».

Che cosa accade quando, nonostante i controlli, il virus entra in una struttura che è chiusa all'esterno?

«E' una situazione molto difficile. Perché è quello il momento in cui bisognerebbe poter dividere i sani dagli infetti. Ma per farlo è necessario avere i tamponi. Senza è come vivere al buio. Non si può certo dividere chi ha la tosse da chi no».

Avete chiesto i tamponi?

«Come associazioni di categoria li abbiamo chiesti fin dall'inizio».

E perché non ve li danno?

«Io non l'ho capito. Diciamo che il motivo non mi è molto chiaro. Intendiamoci, gestire la cosa pubblica in questo momento non è certo facile. Ma è un fatto che senza poter dividere gli infetti dagli altri la situazione rischia di peggiorare ogni giorno».