Intervista a Cristina Di Bari

Jacopo Ricca
 
«Alla grande Torino, mancano entusiasmo e visione. Con il piano strategico metropolitano arriva la seconda, ma la prima dobbiamo metterla tutti, a partire dai politici». Cristina Di Bari, componente di Confapi nazionale, a lungo vicepresidente di Api Torino, ma anche vicepresidente della fondazione Cottino, vede nella proposta per rilanciare l'ex provincia un'occasione anche per il tessuto imprenditoriale: «La competitività è una conseguenza della crescita. Soprattutto per  le piccole e medie imprese- spiega - Ed è molto importante il ruolo dei decisori pubblici nel costruire infrastrutture materiali e non che ci aiutino nella nostra attività. Per me grande Torino ha due significati. Uno è la dimensione spaziale, come viene evidenziato anche nel piano strategico, che deve comprendere un dato di fatto: molte imprese non sono nel comune di Torino, ma ci dialogano e c'è bisogno di una visione che coordini azioni più ampie».
 
 
E l'altro significato di grande Torino?
 
 
«Resto convinta che il Torinese sia una posizione molto buona a livello europeo, ma ciò che conta è dargli una nuova dimensione tecnologica: l'innovazione ci aiuta a considerare gli spazi in modo molto più ampio. Pensiamo anche solo all'esplosione dello smart working nell'ultimo anno e a quanto abbia stravolto il modo di vivere, di muoversi di tanti lavoratori. Chi lavora a distanza però ha bisogno di infrastrutture. Penso alla prospettiva di avere una parte dei dipendenti che non viene ogni volta in azienda: per poterlo fare ci serve una  connessione rapida che raggiunga tutte le aree della città metropolitana. Faccio un altro esempio: la mia azienda è a Moncalieri e non so come far arrivare i dipendenti direttamente da Torino con i mezzi pubblici. E siamo in zona industriale e non in mezzo  alla campagna: i nostri dipendenti vengono in auto perché un bus comodo non c'è. La rivoluzione verde e della mobilità passa dalla soluzione a questi problemi».
 
 
Perché dice che manca visione?
 
 
«Come imprese abbiamo bisogno di una progettazione almeno a 10 anni di che cosa questo territorio vuole diventare. Deve essere un centro con la vocazione di far restare in questa realtà i giovani che qui vengono a studiare. Dobbiamo capire perché la città, ma evidentemente anche le aziende, non sono così attrattive per i laureati che i nostri atenei producono. Le possibilità di costruire filiere attraverso i poli d'innovazione, ad esempio, c'è e dobbiamo favorirle. Il trasferimento tecnologico può esserci dagli atenei alle aziende, ma ci possono essere anche percorsi inversi e soprattutto devono portarci a dialogare con i laureati. La promozione internazionale delle eccellenze va rafforzata».
 
 
La politica non porta entusiasmo?
 
 
«L'attuale dirigenza politica ha dimostrato molta miopia. Al di là della buona volontà della sindaca Appendino trovo che ci sia poco dibattito politico, poche persone si espongono davvero sulla città. Mi domando dove sia la sinistra, se c'è e con quali visioni si proponga di tornare a governare Torino. Mi sembra che tutti abbiano una visione molto di corto respiro: mancano entusiasmo e visione e spero che con la campagna elettorale magari questo arrivi. Però in generale serve un salto di qualità»
 
 
 
Chi può farlo?
 
 
«Serve una nuova alleanza che si impegni per il cambiamento, faccia massa critica. Essere in tanti per volere un cambiamento: i progetti che sta facendo il Politecnico con il suo rettore Guido Saracco vanno in questa direzione. Con il Cottiino social impact campus non abbiamo inventato nulla, solo cercato di realizzare un luogo dove chi studia i nuovi paradigmi per uno sviluppo sostenibile possa confrontarsi. Al. futuro sindaco chiederei di avere l'umiltà di capire che ci sono i nuovi modelli di crescita e di essere disponibile a copiare le azioni che sono state messe in piedi altrove».